Bar e ristoranti acquistano prodotti italiani per 20 mld EUR/anno
GDO, Grande Distribuzione Organizzata: il sogno per nulla inconfessato di ogni imprenditore del comparto agro-alimentare. Perché no, dopotutto? Il fascino è insito nella promessa associata all’acronimo: distribuiremo i tuoi prodotti in grandi volumi e con il livello organizzativo che solo esperti in logistica come noi possono garantire.
Cosa si può desiderare di più per il proprio marchio?
A livello nostalgico-emozionale, gli italiani amano il binomio «piccolo e artigianale»: esso ricorre da decenni nel linguaggio pubblicitario nazional-popolare, con un buon numero di marchi che, a livello linguistico e grafico, richiamano amorevoli vecchine in abiti rurali, prati fioriti, antichi borghi e — immortale capolavoro di finzione — un noto mulino che, da solo, soddisfa il fabbisogno di frollini dell’intera Penisola dal lontano 1974.
Un’iconografia del genere non ha collegamento con l’Italia reale degli Anni Venti del ventunesimo secolo. Soprattutto, quei marchi non devono il proprio durevole successo alla qualità artigiana dei loro prodotti, bensì alla loro ubiqua reperibilità a un prezzo contenuto, frutto combinato di produzione assolutamente industriale — no, bambini: da quel mulino non è uscito un solo Taralluccio — e distribuzione su larga, larghissima scala. Appunto, la GDO.
Perciò, congratulazioni a chi ha saputo inserirsi da protagonista in un club di giganti e ormai spedisce quasi solo a full truck, dal momento che a distribuire pensa qualcun altro.
Tale approccio unidirezionale, tuttavia, conduce spesso il settore agro-alimentare a sottovalutare il comparto ristorazione, il quale invece è rilevante per consumi e valore economico.
A titolo d’esempio, nella primavera del 2020, in piena emergenza CoViD-19, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi (FIPE) calcolò che gli esercizi adibiti alla somministrazione di cibi e bevande avessero contribuito con ≈ 46 mld EUR al valore complessivo della filiera agro-alimentare italiana, attestato — secondo i dati citati da FIPE — a ≈ 135 mld EUR.
Come metro di paragone, lo studio di FIPE attribuiva al secondo comparto della filiera per importanza, cioè all’agricoltura, un peso di «appena» 25 mld EUR. In più, FIPE stimava in 20 mld EUR gli acquisti annui di prodotti agro-alimentari da parte del settore ristorazione.
Più o meno nello stesso periodo, l’Unione Italiana Food lanciò un allarme sulle perdite che si prevedeva avrebbero colpito la filiera agro-alimentare a causa delle restrizioni anti-CoViD-19 imposte a bar e ristoranti: non meno di 1 mld EUR nei primi due mesi della fase pandemica, cifra che si riteneva destinata a quadruplicare entro la fine dell’anno.
Naturalmente, va tenuta presente la difficoltà di calcolare univocamente i numeri di un comparto tanto complesso, proprio perché, trattandosi di «filiera» (tra le più diversificate e sviluppate al mondo), si possono avere dati diversi a seconda di dove si inizi a contare e di quante ramificazioni si considerino.
Per confronto, Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, negli ultimi giorni del 2022 dichiarò che agricoltura e industria alimentare avevano costituito un quarto del PIL nazionale dell’anno appena trascorso, con ≈ 580 mld EUR. Ora, per quanto tutta l’economia italiana fosse in enorme sofferenza nel 2020, il notevole scarto fra 135 e 580 mld EUR suggerisce differenti criteri di calcolo (valori ancora diversi sono disponibili nel dettagliato Rapporto FIPE Ristorazione 2021, corredati da analisi approfondite).
Ciò che conta nel nostro ragionamento — e rimane confermato dai fatti — è che vedere nella sola GDO la condizione necessaria e sufficiente per il successo, snobbando il canale dei pubblici esercizi, è una forma incomprensibile di autolesionismo.
Anche il comparto ristorazione talvolta sembra non comprendere appieno quanto proficua possa essere una sinergia fra chi produce/trasforma e chi prepara/somministra, come se non fossero due passaggi di un solo meccanismo. Eppure, non mancano casi documentati di settori largamente o esclusivamente votati alla ristorazione.
Il modello di sviluppo delle grandi catene statunitensi come McDonald’s dimostra che la ristorazione può diventare forza trainante dell’industria agro-alimentare. Normalmente accade il contrario, situazione che i ristoratori per primi tendono a perpetuare, nella speranza che basti acquistare questo o quel «prodotto particolare» per differenziarsi dalla concorrenza.
La debolezza di tale ragionamento sta nel fatto stesso che il prodotto presumibilmente differenziante sia in libera vendita e quindi disponibile alla concorrenza. Il risultato è una sterile rincorsa alla novità, magari più costosa ma non per questo migliore di alternative più «industriali» e sperimentate; e alla fine, giocoforza, la novità non sarà più differenziante, visto che possono adottarla tutti.
Si può obiettare che la maggioranza degli operatori della ristorazione manchi della forza commerciale e della leva contrattuale di pesi massimi come McDonald’s, Burger King, Kentucky Fried Chicken e — per citare un «bar» — Starbucks. Sarebbe dunque futile ipotizzare alternative al modello dominante della ristorazione trainata dall’industria, di cui uno può solo subire — cioè farsi vendere — le scelte commerciali.
Tale obiezione è legittima in realtà come gli Stati Uniti, dove prevale un modello fatto di pochi soggetti massicci e particolarmente strutturati; ma, nel caso dell’Italia e, in generale, dei paesi caratterizzati da una fitta rete di piccole e medie imprese (PMI) agro-alimentari, esistono margini di collaborazione più ampi.
Senza dubbio, bisogna garantire buoni volumi d’acquisto e dotarsi di seri modelli di sviluppo, ma una volta date tali premesse, è realistico cercare fra le PMI alimentari uno o più partner di dimensioni comparabili alle proprie, allo scopo di sviluppare prodotti ad hoc, realmente differenzianti e, idealmente, associarli a un marchio.
Non si tratta solo di farsi produrre i bigoli di farro in buste da 500 g e la salsa di noci in vasetto, per venderli ai clienti curiosi di rifarsi a casa il piatto particolare della serata. Questo è gadget, souvenir — e va benissimo. Esistono svariati esempi di successo: si pensi al condimento per la Caesar Salad, che Cesare Cardini decise di commercializzare su scala mondiale anziché tenerne la ricetta confinata fra le mura del suo locale a Tijuana, dove la famosa insalata fu creata nel 1924. L’idea fu così vincente che l’Original Dressing e le sue varianti sono ancora in commercio, con un intero sito dedicato.
Il punto è che la sinergia ristorazione-industria può dare frutti ben più interessanti, a partire da semilavorati destinati all’uso professionale, in modo da liberare la brigata di cucina da quei compiti ripetitivi e laboriosi che una macchina può svolgere in modo più efficiente e sicuro, anche sul piano sanitario.
Si possono sviluppare forme innovative di packaging — al di là della personalizzazione grafica — per migliorare la trasportabilità di alcune pietanze e/o ridurre l’impatto ambientale dei contenitori usati. Anche in questo caso, le catene di fast food sono state fondamentali nel favorire la convergenza d’investimenti, ricerca e creatività, senza accontentarsi di ciò che l’industria dell’imballaggio aveva da offrire alla metà del XX secolo.
Infine, a un livello più «alto», il bar o il ristorante possono perfino chiedere all’industria di sviluppare ingredienti e macchinari pensati per l’architettura del locale o alcune specifiche preparazioni. Il boom della cucina «molecolare» — definizione di comodo ma vaga, nella quale finiscono per confluire professionisti diversi come Adriá, Blumenthal e Bottura — ha imposto di ripensare i metodi tradizionali di preparazione e conservazione, decostruirli e integrarli con conoscenze per lungo tempo riservate al laboratorio più che alle cucine stellate.
Basti pensare all’azoto liquido, ai modificatori di consistenza (addensanti, fluidificanti, emulsionanti, ecc.) e alla frittura in destrosio, l’uso dei quali nella cucina «molecolare» riprende principî e tecniche ben note all’industria alimentare. Per rispondere alle esigenze operative della ristorazione, il comparto industriale ha quindi dovuto sviluppare non metodologie rivoluzionarie, ma macchinari, contenitori e ingredienti tarati per le cucine e, talvolta, per il servizio in sala.
In conclusione, vi è un grande potenziale ancora non sfruttato, con interessanti opportunità di crescita per tutti i soggetti coinvolti, per chi vende e chi compra; per chi si caratterizza rispetto alla concorrenza, semplificando l’operatività quotidiana, aprendo la strada alla replicabilità del modello e abbracciando i cambiamenti sociali; e per chi differenzia i canali di vendita, minimizzando il rischio d’impresa sfruttando economie di scala associate a clienti solidi e nuove forme di consumo.
Carmine F. Milone
Tecnologo alimentare
Fondatore e coordinatore, GoodFood Consulting
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Fonti:
https://www.fipe.it/wp-content/uploads/2021/12/2020-02-21_Fipe_rapporto_ristorazione_2019-1.pdf
https://www.fipe.it/wp-content/uploads/2022/03/Rapporto-Ristorazione-2021.pdf
https://www.scattidigusto.it/2022/09/27/eataly-farinetti-flop-come-cambia-bonomi-investindustrial/