Origine in etichetta e i decreti tutti italiani: vedremo mai una fine? In attesa dell’UE si proroga e riproroga.
La riconferma di norme adottate senza l’approvazione dell’Europa espone l’Italia a pesanti sanzioni e danneggia direttamente gli operatori del settore alimentare.
Il Decreto Ministeriale 28 dicembre 2021 (Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 32 dell’8 febbraio 2022) proroga fino al 31 dicembre 2022 l’obbligo d’indicare in etichetta l’origine di alcuni ingredienti di primaria importanza nella dieta della maggior parte delle famiglie italiane: riso, grano duro, latte, derivati del pomodoro e carne di maiale.
Il testo porta la firma del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, Patuanelli, insieme a quelle del collega Giorgetti, Ministro dello sviluppo economico, e Speranza, Ministro della salute.
Le disposizioni del decreto si applicano alle seguenti categorie merceologiche:
- riso, come definito dalla legge 18 marzo 1958, n. 325 (codici doganali 1006);
- paste alimentari di grano duro, come definite dal DPR 9 febbraio 2001, n. 187, escluse le paste alimentari fresche e stabilizzate e altre paste speciali, citate rispettivamente negli articoli 9 e 12 dello stesso DPR;
- derivati del pomodoro, come dettagliati nell’art. 24 della Legge n. 154 del 28 luglio 2016;
- sughi e salse a base di pomodoro (codice doganale 21032000), «ottenuti mescolando uno o più dei derivati di cui al punto a) con altri prodotti di origine vegetale o animale, il cui peso netto totale sia costituito per almeno il 50% dai derivati di cui al punto c)».
- latte e prodotti lattiero-caseari elencati nell’allegato 1 del Decreto Ministeriale 9 dicembre 2016, preimballati ai sensi dell’art. 2 del regolamento (UE) n. 1169/2011, e destinati al consumo umano;
- carne suina macinata o separata meccanicamente, così come le preparazioni e i prodotti a base di carne suina, inclusa pertanto la quasi totalità dei salumi.
Il testo specifica che il provvedimento tiene conto «delle consultazioni in corso sulla modifica del regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori». In questo senso, il Decreto sembra limitarsi a rinnovare un obbligo già sancito, offrendo un elemento di trasparenza informativa al momento dell’acquisto, a maggior tutela del consumatore. Come tale, sarebbe addirittura apprezzabile, nello spirito e nella sostanza.
Tuttavia, la Legge vive anche di forme, protocolli e procedure. Non può quindi passare in secondo piano il fatto che il nuovo Decreto e quelli di cui esso proroga le disposizioni siano in contrasto con la legislazione europea, in quanto approvati unilateralmente dall’Italia senza il necessario placet delle autorità di Bruxelles.
Negli ultimi anni, il governo italiano ha ribadito in più occasioni la piena vigenza dell’obbligo di etichettatura d’origine, ora prorogato fino a tutto il 2022 (e prevedibilmente, anche oltre), ma sotto ogni profilo tecnico e giuridico si tratta di norme illegittime, quindi nulle. La questione è tanto più seria a fronte del silenzio delle autorità da cui invece ci si attenderebbe una presa di posizione forte e chiara, inclusa la Corte Costituzionale italiana.
Il nostro paese commercializza circa due terzi delle sue esportazioni alimentari nel mercato europeo: uno spazio comune poiché retto da regole comuni… quelle concordate a Bruxelles, non a Roma. Il prevalere delle regole UE su quelle nazionali è un principio solido e ragionevole, senza il quale il «condominio Europa» (nel senso letterale di con-dominio: condividere il potere decisionale) non può reggersi.
Quando i singoli Stati intendono legiferare su materie su cui l’Europa si sia già espressa, è loro dovere (nonché minima cortesia istituzionale) informare i competenti uffici europei e sottoporre loro una bozza del testo che si vorrebbe approvare a livello nazionale. Se l’Europa dà luce verde, si procede; altrimenti, si cambia il testo o si rinuncia. Tertium non datur.
Non serve agitare il vessillo della sovranità nazionale. L’Italia non ha «perso» sovranità: l’ha semplicemente trasferita (con limiti e tutele ben precisi) alle istituzioni comunitarie, dove sono presenti anche funzionari italiani. Come l’Italia, così fanno gli altri paesi membri: un prezzo equo, invero, in cambio della possibilità di accedere alla più grande area di libero scambio al mondo, con cinquecento milioni di consumatori e un PIL da tredicimila miliardi di euro l’anno.
L’informazione sull’origine degli ingredienti primari è essenziale per favorire l’integrità delle filiere e la creazione di valore sul territorio. Per questo si batte, da anni, uno dei massimi esperti in legislazione alimentare in Europa, l’Avvocato Dario Dongo, fra l’altro sostenendo l’iniziativa EatORIGINal! Unmask your food! volta a esercitare pressioni affinché l’Europa legiferi in modo chiaro e definitivo sulle norme di trasparenza informativa in ambito alimentare.
D’altra parte, in vari interventi pubblicati online, Dongo insiste che la risposta a un vuoto legislativo europeo non può essere l’azione unilaterale in spregio ai trattati sottoscritti dall’Italia. Ciò potrebbe indurre Bruxelles ad avviare una procedura d’infrazione, con prevedibili pesanti sanzioni a carico del nostro paese, cioè dei contribuenti, non certo dei ministri che hanno firmato – e rifirmato! – gli improvvidi decreti.
Nel dettaglio – ricorda Dongo – la bozza dei primi decreti sull’indicazione d’origine di grano duro e riso fu regolarmente trasmessa a Bruxelles, rispettando la norma di sospensione dell’iter legislativo nazionale per almeno tre mesi, in attesa del via libera della Commissione europea. Il 20 luglio 2017, tuttavia, i ministri Martina e Calenda firmarono i decreti senz’attendere il responso della Commissione, di fatto sancendo l’illegittimità ab origine dei due provvedimenti per manifesta violazione del Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
Quanto al decreto sull’indicazione d’origine dei derivati del pomodoro, gli stessi Martina e Calenda avevano addirittura omesso di notificare lo schema di decreto alla Commissione europea, obbligo che vige – è appena il caso di ricordare – dal lontano 1983.
L’illegittimità ab origine non viene meno in virtù di nuovi decreti che estendano il periodo di applicazione dei decreti originari, come il Decreto interministeriale del 9 maggio 2018, a firma dei ministri Calenda e Gentiloni; e poi, via via, fino all’ultimo decreto del 28 dicembre 2021. Per giunta, il reg. UE 1169/11, art. 38 (Disposizioni nazionali), vieta la sovrapposizione di norme nazionali con il Food Information Regulation nelle parti ivi armonizzate.
A livello locale si è creato un non meno dannoso corto circuito fra legge dello Stato e legge comunitaria: una situazione caotica che colpisce, con effetto-domino, tanto i pubblici ufficiali incaricati di far rispettare la Legge (ma quale?) quanto i professionisti privati di settore, come i tecnologi alimentari, il cui lavoro letteralmente vive di norme correttamente applicate.
Supponiamo che un produttore di salse e sughi con stabilimenti in varie parti d’Europa – e, quindi, abituato (obbligato, anzi!) ad applicare le norme europee senza modificazioni – immetta nel mercato italiano prodotti etichettati con la semplice dicitura «UE» oppure «non-UE», come prevede il controverso reg. UE 2018/775 (queste diciture, decisamente ampie, sono un piccolo passo per comprendere la reale provenienza dell’ingrediente, ma tuttavia tengono conto della variabilità di origine che l’industria alimentare deve affrontare, specialmente in un’epoca complicata da pandemie e guerre, per la prima volta all’interno dei confini geografici del continente europeo).
Come (re)agirà l’autorità italiana? In realtà, non dovrebbero sussistere dubbi: è stato ribadito più volte, a livello europeo, che il singolo pubblico ufficiale, dall’ispettore al magistrato, ha l’obbligo di disapplicare la norma nazionale non allineata con la legge comunitaria. Se manca a tale obbligo, il pubblico ufficiale si espone al concreto rischio di un’indagine per abuso d’ufficio non appena l’Italia sarà obbligata (e lo sarà) a tornare sui propri passi.
D’altro canto, se il pubblico ufficiale ottempera all’obbligo della disapplicazione, come dipendente pubblico italiano, si troverà a disobbedire al suo stesso «datore di lavoro», con possibili conseguenze sulla carriera, inclusa la sospensione e la perdita del posto. Chi gli garantisce che, pur avendo tecnicamente agito bene, vincerà un eventuale ricorso e sarà reintegrato? Se perfino la Corte Costituzionale del suo paese tace, in sostanza avallando l’operato del governo, chi è lui, singola ruota d’un ingranaggio complesso e spesso illogico, per dichiarare guerra non a uno ma a tre ministeri?
A sua volta, il consulente alimentare, il tecnologo, l’avvocato… tutte le figure professionali chiamate ad aiutare l’imprenditore a non infrangere la legge e a difenderlo in caso sia accusato di averla infranta, a quale legge devono rifarsi? A quella vera, ma scavalcata dalla norma nazionale; o a quest’ultima, che però è nulla da un punto di vista comunitario?
Così, i decreti sulla dichiarazione d’origine restano in vigore, creando un precedente assai pericoloso per la tenuta dei principi fondanti del mercato unico.
Come tecnologi e consumatori, siamo tutti d’accordo sull’importanza della trasparenza informativa, ma non al prezzo di disattendere gli impegni assunti a livello comunitario. I professionisti del settore, come anche i pubblici ufficiali con cui tali professionisti si rapportano ogni giorno, hanno il diritto a lavorare su una base legale certa, che non induca in errore né esponga gli imprenditori a sanzioni ingiustificate e obblighi vessatori.
Carmine F. Milone
Fonti:
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/02/08/22A00804/sg
https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:304:0018:0063:it:PDF
https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/EPRS_BRI(2017)611009
https://www.greatitalianfoodtrade.it/etichette/origine-grano-e-riso-caos-inutile/